“Ci sono cose che il destino si propone ostinatamente. Invano gli attraversano la strada la ragione e la virtù, il dovere e tutto quello che c’è di più sacro: qualcosa deve accadere, che per lui è giusto, che a noi non sembra giusto e possiamo comportarci come vogliamo, alla fine è lui che vince”
J. Wolfang Goethe (1749-1832), dal romanzo “Le affinità elettive”
Deutsche Bank è un istituto di credito tedesco fondato nel 1870. Alcuni mesi fa il prestigioso settimanale tedesco “Der Spiegel” ha pubblicato un lungo articolo in merito alla profonda crisi in cui versa il gigantesco istituto di credito. Deutsche Bank ha chiuso il 2018 con un utile di 341 milioni di euro, primo indice positivo dopo quattro anni di perdite. Ma vuol dire poco o nulla di fronte al peso di due decenni di operazioni rischiose, speculazioni avventate, sogni di grandezza e scommesse perse che hanno lasciato il segno. I costi sono diventati insostenibili.
I tagli, al materiale umano, ormai inevitabili: entro il 2022 un dipendente su cinque perderà il lavoro. Tra gli indici più evidenti ci sono i derivati. Alla fine dello scorso anno Deutsche Bank ne aveva a bilancio per 43.500 miliardi di euro, 4.800 in meno rispetto a 12 mesi prima. Parliamo di nozionale, ovvero di un dato teorico calcolato sulla somma di tutti i contratti e del loro valore massimo potenziale.
Ciò rivela: una cifra che non significa quasi niente. Il fatto è che nella maggior parte dei casi i contratti si annullano a vicenda. Un derivato A che premia il possessore in caso di aumento di un determinato tasso di interesse, per esempio, è bilanciato da un derivato B che si comporta nello stesso modo qualora il medesimo tasso diminuisca o resti invariato. Al primo trimestre di quest’anno, l’esposizione netta -il rischio- sui derivati era addirittura aumentata: 22 miliardi di euro, contro il 20, 2 di fine 2017.
L’ istituto di credito tedesco ha investito in prodotti finanziari redditizi quanto rischiosi. Asset illiquidi, classificati nei bilanci come “attivi di livello 3”. Privi di un chiaro mercato di riferimento e soggetti a metodi di valutazione discutibili, questi asset sono da tempo gli osservati speciali nei conti della banca di Francoforte sul Meno (dove si trova la sede centrale di Deutsche Bank). Alla fine del 2017, gli asset di terzo livello in mano a Deutsche Bank erano stimati in 22 miliardi di euro, il dato più alto tra le maggiori banche europee. La cifra corrispondeva al 45% circa del patrimonio principale, una quota probabilmente superiore alla media dei principali istituti del mondo. Secondo l’ultimo rapporto sul rischio creditizio, diffuso dalla banca tedesca, alla fine del primo trimestre 2019 gli asset di livello 3 ammontavano a 25 miliardi di euro contro i 22 di fine 2017.
Per quanto attiene alle perdite: secondo “Fortune”, la rivista statunitense che parla di economia, 2,8 miliardi di euro nel secondo trimestre 2019 e ha indicato in 7,4 miliardi i costi di ristrutturazione previsti da qui al 2022. Lo scorso 7 Luglio, Christian Sewing, il Ceo, ha presentato il piano di ristrutturazione. Il successo del piano di ristrutturazione presentato da Sewing sarà affidato ad una nuova unità o sezione del bilancio di Deutsche Bank: la Capital release unit ( Cru). Deutsche Bank assicura che non si tratta di una tipica “bad bank” che consuma capitale o richiede nuovo capitale per coprire una crepa.
La Cru nasce come una “good bank”che dovrà liberare 5 miliardi di capitale ed entro 18 mesi dovrà disfarsi di metà degli asset. L’obiettivo strategico è il seguente: vendere, chiudere prodotti attivi e aree di business che rendono poco e consumano troppo capitale. Alla base vi è la necessità di abbandonare il modello di “banca universale” e di impegnarsi sui finanziamenti alle imprese tedesche.
Come finirà per la banca emblema della crescita tedesca nel mondo?