Come si recuperavano i crediti nell’antica Roma?
Ne sappiamo qualcosa dal Diritto Romano, le 12 tavole del 451- 450 A. C. tramandate oralmente dalla casta dei giuristi e giunte fino a noi grazie a brani di Cicerone, Gaio Mario e Aulo Gellio.
Si applicava la cosiddetta “manus iniectio“: il debitore doveva saldare il suo debito entro 30 giorni, al termine dei quali veniva arrestato e portato davanti al pretore. Se non riusciva ad estinguere immediatamente la somma dovuta era messo in catene, del peso di 15 libbre, per 60 giorni e spesso finiva ai lavori forzati presso il suo creditore. In questo lasso di tempo doveva provvedere da solo alla propria sussistenza oppure si nutriva con la farina che il creditore non doveva fargli mancare.
Scaduti i 60 giorni, se non riusciva a ripagare il dovuto e se nessuno garantiva per lui, era venduto nei tre mercati dell’Urbe per un importo che copriva esattamente il prezzo del debito e diveniva a tutti gli effetti uno schiavo senza alcun diritto giuridico. Subiva, quindi, l’infamia della “capitis deminutio“, una sorte di morte civile.
Se non si trovava nessun offerente disposto ad acquistarlo come schiavo, il debitore veniva condotto in un altro mercato fuori città, oltre il Tevere, dove veniva ucciso e venduto a pezzi.
La pratica di fare a pezzi il debitore insolvente è tramandata anche dall’opera teatrale di William Shakespeare, Il mercante di Venezia (dalla quale è stato tratto uno splendido film con un cast stellare), in cui l’intera vicenda ruota intorno ad un “recupero crediti” molto discusso in tribunale, dove il creditore Shylock chiede in saldo al suo debitore, del tutto legittimamente, una libbra di carne del suo petto. Ma non mancano nella storia altre pratiche “curiose” a cui erano sottoposti i debitori.
Ne parleremo ancora, ancora e ancora.
Le informazioni sono tratte dalla lezione del Professor Marco Marchetti tenuta al Festival del Medioevo di Gubbio nel 2017.
Leonilde Gambetti