Era agghindato con uno sgargiante mantello rosso per non passare inosservato. Insistente e fastidioso, inseguiva fisicamente il debitore moroso in ogni luogo e in ogni ora del giorno e ne gridava ai quattro venti la situazione di insolvenza e lo stato patrimoniale, nel tentativo di rovinargli la reputazione. Fino a quando non otteneva la soddisfazione del pagamento a saldo.
E negli affari, si sa, la reputazione è tutto.
Praticamente un vero e proprio stalker.
Parliamo della “pittima”, una figura tra storia e leggenda, raccontata anche da Fabrizio De André in una sua canzone.
“… e vaddu in giù a çerca i dinë
a chi se i tegne e ghe l’àn prestë
e ghe i dumandu timidamente ma in mezu ä gente…”
 
Trova la sua collocazione storica nel primo Rinascimento e quella geografica nelle Repubbliche marinare di Venezia e Genova.
Non a caso due repubbliche che fondarono la loro potenza sugli scambi commerciali, dove quindi la solidità dei pagamenti e l’affidabilità degli scambi erano un valore fondamentale.
Seppur i riferimenti storici siano piuttosto latitanti, ancora oggi la pittima è considerata una figura fastidiosa e sgradevole, un impiastro, come da derivazione etimologica.
Si racconta che inseguisse con alti lamenti e fino allo sfinimento il debitore, per ottenere il saldo del debito pendente, la cui riscossione le poteva fruttare una percentuale più o meno congrua.
Era pagata dal creditore, ma a tutti gli effetti era un soggetto pubblico, impiegato dallo Stato, intoccabile e protetto direttamente dal Doge. Godeva di assistenza pubblica in mense ed ostelli in cambio della disponibilità su richiesta delle istituzioni e chi la contrastava era soggetto a condanna certa.
Era reclutata fra i più indigenti, i disoccupati e gli emarginati e si usava descriverla molto solerte nell’adempimento del suo lavoro, che gli conferiva il potere che oggi potremmo definire di “stalking debitorio”.
Leonilde Gambetti